Documenti

DOCUMENTI

Monday, October 16, 2006

Seveso:omessa, od insufficiente, bonifica dei siti inquinati, danno morale, termini di prescrizione

ecco i link:

http://www.personaedanno.it/site/sez_browse1.php?campo1=34&campo2=307&browse_id=4299&arch_level=2

http://www.personaedanno.it/site/sez_browse1.php?campo1=34&campo2=307&browse_id=4299


ecco il testo:

04.07.2006
Trib. Monza, sez. distaccata di Desio, 4 luglio 2006 - «DISASTRO DI SEVESO» E PRESCRIZIONE – Adolfo TENCATI
Nonostante Cass., sez. U., 21.2.02, n. 2515, AC, 2002, 547, pronunciata su un ricorso attinente allo stesso «disastro di Severo», abbia stimato risarcibile il «danno morale da disastro colposo», in quanto il delitto previsto e punito dall’art. 449, c. p. offende contemporaneamente la pubblica incolumità ed i singoli abitanti delle zone circostanti lo stabilimento ICMESA, la loro sorte processuale è stata negativa. Il giudice brianzolo, infatti, ha accolto l’eccezione di prescrizione sollevata dall’ICMESA – parte convenuta – perché i danni lamentati dagli attori traggono origine(anche nelle loro componenti esistenziali) dal fatto lesivo avvenuto nel 1976. L’omessa, od insufficiente, bonifica dei siti inquinati ad opera della convenuta non consente, perciò, di accogliere le domande di risarcimento; la loro reiezione si fonda sulla corretta applicazione del principio di causalità. Sotto il profilo causale, invero, i danni si sono prodotti indipendentemente dalla condotta omissiva della società convenuta. Altrettanto corretta è la distinzione fra:  illecito permanente, che continua a sussistere malgrado il passare del tempo. Pertanto il diritto al risarcimento sorge istante per istante e, se non azionato, si prescrive decorsi gli ultimi 5 anni dalla cessazione dell’evento lesivo;  illecito con effetti permanenti, come il «disastro di Seveso», dove il fatto generatore del danno è unico, ma i suoi effetti si estendono nel tempo. In questo caso, stante l’unicità del fatto dannoso, il dies a quo della prescrizione consiste nel verificarsi del fatto stesso. Spiace peraltro, ed il giudice giustamente lo sottolinea, non poter soddisfare le istanze risarcitorie degli abitanti nelle zone circostanti all’ICMESA perché la loro tutela è inibita dalla prescrizione. La via per ribaltare la pronuncia in esame attraverso l’appello, ovviamente non ancora proposto stante la novità della pronuncia medesima, consiste nel far partecipare anche la mancata (od insufficiente) bonifica dei siti inquinati dalla diossina al processo genetico di danni esistenziali diversi ed ulteriori rispetto a quelli cagionati dall’originario evento lesivo. Ma a questo punto il discorso si sposta sul piano probatorio e, sotto tale profilo, certo non brillano i capitoli di prova orale prospettati dagli attori. Essi, come emerge dalla motivazione, chiedevano ai testimoni di deporre su circostanze relative al disastro del 1976, non già sul fatto che la qualità della vita, nei territori contaminati, era peggiorata in relazione immediata e diretta con la mancata, od insufficiente, bonifica dei territori stessi. Stante l’art. 345, 3° co., c. p. c. è difficile rimediare all’impostazione difensiva censurata dalla pronuncia in esame. Si può, tuttavia, superare il divieto di ammettere «nuovi mezzi di prova [in appello, confidando nel fatto] che il Collegio […]ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa» i nuovi capitoli di prova orale necessari a dimostrare il rapporto eziologico tra il comportamento omissivo di ICMESA ed il pregiudizio esistenziale subito dagli attori. La vicenda può ritenersi ancora in evoluzione e, perciò, si resta in attesa degli ulteriori sviluppi. clicca qui per il TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA

http://www.personaedanno.it/files/personaedanno_browse1_it_4299_resource_orig.doc

ecco il testo integrale della sentenza:

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Gli attori in epigrafe hanno convenuto innanzi al Tribunale di Monza Sezione Distaccata di Desio l’ICMESA s. p. a. in liquidazione, onde sentirla condannare al risarcimento dei danni derivanti dalla mancata bonifica della c.d. “Zona B”, colpita dagli effetti inquinanti dell’evento verificatosi in data 10 luglio 1976, quando il reattore chimico della fabbrica della convenuta esplose, diffondendo in tutta la zona una ingente quantità di Diossina o TCDD.
Sostengono gli attori che la ICMESA s. p. a., quale responsabile dell’evento, avrebbe dovuto provvedere alla bonifica della zona contaminata, laddove la condotta omissiva della convenuta, cumulata al carattere permanente del danno conseguente all’originario disastro del 1976, perpetuerebbe una situazione di lesione delle posizioni soggettive degli attori, sottoposti a costanti controlli sanitari.
Ha in particolare argomentato la difesa attorea che, dovendosi considerare il sito come “inquinato” ex art. 4 D.M. 471/99, la sua mancata bonifica verrebbe a costituire illecito penale ex art. 51 bis,d. lgs. 22/97, legittimando conseguentemente gli attori medesimi ad instare per il conseguimento del risarcimento del danno, anche alla luce dei dicta di Cass. S.U. 2515/2002 e 4648/02.
Si è costituita la ICMESA s. p. a. che ha sollevato diverse eccezioni.
• La prima è quella di prescrizione dei diritti azionati dagli attori, argomentata sotto tutti i possibili profili applicativi di cui all’art. 2947 c. c.
• La seconda è relativa alla improponibilità della domanda da parte di 135 degli attori, per avere i medesimi sottoscritto una scrittura privata di transazione.
• La convenuta ha poi eccepito il difetto di procura per 13 attori.
• ICMESA s. p. a. in liquidazione ha poi sostenuto l’infondatezza nel merito della domanda, deducendo l’assenza dei presupposti concreti di un danno risarcibile.
Concludeva come in epigrafe.
Senza espletamento di attività istruttoria, le parti sono state invitate a precisare le conclusioni sui profili preliminari in rito e merito. Avvenuta la precisazione delle conclusioni, il Tribunale, su richiesta del procuratore di parte attrice, ha disposto lo scambio delle sole conclusionali, fissando udienza per la discussione ex art. 281 quinquies, c. p. c., all’esito della quale la causa è stata trattenuta in decisione. MOTIVI DELLA DECISIONE
Procedendo con l’esame delle eccezioni preliminari sollevate dalla convenuta, deve, in primo luogo, essere esaminata l’eccezione relativa all’assenza del conferimento di procura da parte di 13 degli attori, e cioè, per l’esattezza […]. Parte convenuta, dal canto suo, ha sostenuto l’esistenza delle procure ab initio, provvedendo poi, all’udienza del 21 dicembre 2005, a depositare ulteriori fogli di procura speciale, contenenti le firme dei 13 attori già indicati.
Sul punto la Suprema Corte ha, in numerosi precedenti (cfr. da ultimo Cass. 28 febbraio 2006, n. 4507; Cass. 4 gennaio 2000, n. 12), affermato il principio per cui ai fini della regolare instaurazione del rapporto processuale rileva che la procura speciale risulti apposta sull’originale dell’atto introduttivo, giacché è sulla base del contenuto di questo che avviene l’iscrizione a ruolo della causa e la formazione del fascicolo d’ufficio, ai sensi dell’art. 168 c. p. c. Ne consegue che, spettando al cancelliere, in adempimento del suo dovere di controllo, verificare la corrispondenza delle annotazioni contenute nella nota di iscrizione a ruolo con gli atti ed i documenti prodotti e di rilevare l’eventuale mancato deposito della procura e di farne menzione nella nota e nell’indice del fascicolo d’ufficio, qualora nella nota di iscrizione a ruolo sia stato indicato il rilascio della procura. [Qualora] il cancelliere abbia vistato la nota stessa senza alcun’altra indicazione, deve reputarsi che l’originale dell’atto suddetto effettivamente contenesse la procura al momento della costituzione, in mancanza di elementi contrari, emergenti dagli atti processuali.
Ora, tuttavia, ritiene il Tribunale che nella specie gli “elementi contrari” in questione sussistano.
Parte attrice, infatti, ha – invero diligentemente – indicato nell’epigrafe della citazione, per ciascun attore, il foglio e la riga contenente la firma di rilascio della procura. Orbene, il Tribunale deve constatare che, nel caso di tutti gli attori che avrebbero sottoscritto la procura […] sul foglio “M6” (cioè il foglio “M6” di rilascio delle procure semplicemente non esiste, né in allegato all’originale della citazione, né nelle “veline”. Nel caso, invece, degli attori la cui firma viene indicata sul foglio “M5” […], il Tribunale constata che il foglio viene “chiuso” con l’autentica dell’avvocato Borasi dopo la firma n. 59, laddove le firme degli attori in questione vengono indicate come apposte su righi successivi, i quali, quindi, è impossibile siano esistiti.
Né risulta applicabile la presunzione di verifica da parte del Cancelliere, atteso che il numero di attori e di firme (il Tribunale ha contato più di cento fogli protocollo contenenti firme di procura, numero che moltiplicato per una media – per difetto – di novanta firme a foglio, dà un risultato di oltre 9.000 firme: segno che sono state rilasciate assai più procure di quanti fossero gli attori effettivi della presente controversia) induce ad escludere la possibilità di un concreto controllo da parte della cancelleria.
Risulta evidente, quindi, che le procure prodotte all’udienza del 21 dicembre 2005 sono altre e diverse da quelle indicate in citazione e che, per di più, che non vi è prova che esse fossero effettivamente allegate ad alcuno degli atti di cui all’art. 83 c. p. c. Il concorso di tali due elementi, conseguentemente, impedisce di affermare la possibilità che si sia prodotta sanatoria alcuna (Cass. 16 giugno 2004 n. 11326; Cass. 31 gennaio 1986, n. 630), e conduce alla declaratoria della nullità della domanda, limitatamente ai nominativi sopra indicati.
La seconda eccezione proposta dalla convenuta investe il profilo della improponibilità della domanda da parte di 135 attori (indicati nel doc. 15 di parte convenuta), per intervenuta anteriore transazione con la stessa ICMESA s. p. a. in liquidazione. A detta eccezione parte attrice ha replicato sostenendo che gli atti di transazione in questione si riferirebbero ai soli danni arrecati all’attività di allevamento svolta dai firmatari (odierni attori).
Sul punto il Tribunale osserva che gli atti di transazione (prodotti tutti come doc. 16 da parte della ICMESA s. p. a. in liquidazione), pur riferendosi effettivamente all’attività di avicoltura, contengono tuttavia la previsione per cui “mediante tale pagamento, convenuto ed accettato in via di definitiva transazione, il sottoscritto dichiara la propria tacitazione rispetto a tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, patiti e patiendi, prevedibili e non prevedibili. Ivi comprese le spese di qualsiasi ordine e natura” con rinuncia “a qualsiasi azione civile e penale” e rilascio di “ampia e perentoriamente definitiva quietanza di liberazione e di saldo”.
Va subito chiarito che, per il suo tenore letterale, la transazione ben potrebbe essere riferita alla vicenda in esame, per quanto quest’ultima attenga – secondo la prospettazione attorea – a fatti sopravvenuti rispetto all’epoca di conclusione degli accordi. Ciò alla luce del dictum della Suprema Corte per cui le reciproche concessioni alle quali fa riferimento l’art. 1965, comma 1, c. c. possono riguardare anche liti future non ancora instaurate ed eventuali danni non ancora manifestatisi, purché questi ultimi siano ragionevolmente prevedibili, essendo il relativo accertamento riservato all’apprezzamento del giudice del merito (cfr. Cass. 10 giugno 2005, n. 12320; Cass. 17 gennaio 2003, n. 615).
Il problema, allora, si riduce a stabilire se gli atti di transazione in questione potessero e possano ritenersi riferiti anche al diritto azionato nella presente sede.
Orbene, per quanto attiene al problema dell’individuazione dell’oggetto della transazione, la Cassazione ha precisato che questo deve essere determinato non tanto facendo riferimento alle espressioni letterali usate dalle parti, quanto piuttosto all’oggettiva situazione di contrasto che si intende comporre mediante le reciproche concessioni (Cass. 15 marzo 1991 n. 2788), in relazione non solo alle posizioni assunte dalle parti nella lite in atto, ma anche in vista di una controversia che possa sorgere tra loro e che esse intendono prevenire. È, quindi, rimesso al giudice di merito il compito di indagare sulla portata e sul contenuto di una scrittura transattiva, dovendo egli valorizzare, secondo le regole dell’ermeneutica contrattuale, ogni elemento idoneo a precisare e chiarire i termini dell’accordo, ancorché non richiamati nel documento (Cass. 1° giugno 1988, n. 3714).
Ritiene il Tribunale che, in realtà, al di là delle espressioni e clausole di stile contenute nel “prestampato” utilizzato per tutti i firmatari, le transazioni in questione dovessero ritenersi riferite ai soli danni arrecati all’attività agricola. A confermarlo, indirettamente, è il fatto che in allegato alle transazioni siano presenti verbali di stima dei “danni provocati all’agricoltura” a cura della Regione Lombardia; che gli stessi verbali spesso contengano veri e propri elenchi delle piante e degli orti danneggiati; che, infine, le stesse premesse delle transazioni siano riferite integralmente al profilo del danno all’attività ortofrutticola o di allevamenti animali e avi-cunicoli.
Alla luce di tali elementi è da ritenersi che le transazioni de quibus non abbiano investito il danno qui azionato e che pertanto l’eccezione sollevata dalla convenuta debba essere disattesa.
La terza eccezione, fondamentale, della ICMESA s. p. a. in liquidazione attiene invece il profilo della prescrizione delle pretese attoree. L’esame di detta eccezione, tuttavia, deve necessariamente muovere dall’inquadramento della domanda attorea, giacché detto profilo viene ad incidere in modo profondo e decisivo sull’analisi e sulla valutazione stessa dell’eccezione, come ci si appresta a chiarire.
Ben pochi dubbi possono esservi sul fatto che ogni pretesa risarcitoria inerente all’evento disastroso del 1976 dovrebbe ritenersi prescritta. Sul punto, invero, parte convenuta ha svolto una nutritissima serie di argomentazioni (che qui possono essere richiamate per relationem, in applicazione analogica e libera del principio contenuto all’art. 16.5 del d. lgs. 5/2003, che enuncia la facoltà del giudice di motivare i propri provvedimenti, adottando le argomentazioni di una delle parti), confortate, peraltro, dalle due decisioni del Tribunale di Milano 27 marzo 2003 (doc. 12 convenuta) e della Corte d’Appello di Milano 20 marzo 2006 (doc. 6 convenuta in allegato alla comparsa ex 190 c. p. c.).
Parte attrice, invero, non ha neppure concretamente contestato la correttezza di dette eccezioni, sostenendo, tuttavia, che esse si fonderebbero su un falso presupposto, e cioè, appunto, che la domanda risarcitoria sia riferita ai fatti del 1976. Per contro, gli attori, sin dall’atto introduttivo, e nei successivi libelli, hanno costantemente ribadito che – per mutuare letteralmente quanto affermato a pag. 14 della conclusionale – «le doglianze attoree non si fondano […] sul fatto lesivo avvenuto nel tragico 10 luglio 1976, bensì su un fatto successivo e distinto, ovvero sulla mancata bonifica dei luoghi colpiti dal disastro e sulla conseguente persistenza dello stato di inquinamento».
La tesi attorea è, in sostanza, la seguente: sulla convenuta, in virtù dell’evento del 1976 e del disposto di cui all’art. 51 bis, d. lgs. 22/79 ([1]) sarebbe gravato l’obbligo di procedere alla bonifica dell’area inquinata. Poiché – sulla base dell’Analisi di Rischio che costituisce il perno di tutto l’apparato probatorio attoreo – ancora nell’aprile 2003 l’area interessata dal disastro del 1976 risultava contaminata, la condotta omissiva dell’ICMESA s. p. a. in liquidazione verrebbe ad integrare gli estremi del reato di cui al citato art. 51 bis, d. lgs. 22/97, comportando l’insorgenza (attuale, ed anzi, pro die) di un diritto al risarcimento del danno morale, alla luce del principio stabilito da Cass. S.U. 21 febbraio 2002, n. 2515 («in caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo (art. 449 c. p.), il danno morale soggettivo lamentato da coloro che, trovandosi in una particolare situazione con tale ambiente (nel senso che ivi abitano e/o svolgono attività lavorativa), provino in concreto di avere subito un turbamento psichico (sofferenze e patemi d’animo) di natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamente anche in mancanza di una lesione all’integrità psico - fisica (danno biologico) o di altro evento produttivo di danno patrimoniale, trattandosi di reato plurioffensivo che comporta, oltre all’offesa all’ambiente ed alla pubblica incolumità, anche l’offesa ai singoli, pregiudicati nella loro sfera individuale»).
Così ricostruite le tesi delle parti in causa, pare al Tribunale che l’esame dell’eccezione di prescrizione – senza entrare per ora nel merito della fondatezza della pretesa attorea, anch’esso contestato dalla convenuta – ponga un problema fondamentale, relativo alla possibilità, o meno, di affermare l’idoneità, della condotta attribuita alla convenuta, a far insorgere un danno ulteriore e distinto rispetto a quello scaturito nel 1976 e ormai perento.
Non va dimenticata, infatti, l’operatività di un principio, estrapolabile da più di una massima della Suprema Corte, per cui, effettivamente qualora un medesimo fatto determini, dopo un primo evento lesivo, ulteriori conseguenze pregiudizievoli, la prescrizione dell’azione risarcitoria, per il danno inerente a queste ultime, decorre dalla loro verificazione, a condizione che esse non costituiscano un mero sviluppo ed aggravamento del danno già insorto, ma integrino nuove ed autonome lesioni (cfr. Cass. 25 novembre 2003, n. 17940; Cass. 7 novembre 2005, n. 21500; Cass. 2 aprile 2004, n. 6515).
Detti ulteriori e distinti effetti dannosi, infatti, per quanto conseguenza dello stato di fatto determinato dal comportamento illecito di un terzo, costituiscono effetti di un illecito permanente, la cui caratteristica è di dare luogo ad un diritto al risarcimento, che sorge in modo continuo, e che in modo continuo si prescrive, se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si produce (Cass. 2 aprile 2004 n. 6512).
Applicando i principi in questione al caso concreto, si tratta di stabilire se la mancata bonifica ex art. 51 bis, d. lgs. 22/97 – ammesso che la fattispecie penale possa ritenersi sussistente – abbia dato origine ad un danno ulteriore rispetto a quello cagionato nel 1976, o se le conseguenze di tale (ipotetico) illecito siano da ritenersi assorbite nel fatto originario del 1976. Nel primo caso, infatti, sarebbe individuabile una fonte di danno autonoma che, in virtù del suo carattere permanente, sarebbe in grado di originare, in modo continuo, una pretesa risarcitoria, soggetta ad un autonomo, ma altrettanto continuo, meccanismo di prescrizione.
Va invece sgombrato il campo da un’argomentazione spesa da parte attrice anche in conclusionale, e relativa al fatto che solo nel 2003, con la pubblicazione dell’Analisi di Rischio, gli attori avrebbero acquisito conoscenza del fatto lesivo. Al riguardo, invero, è sufficiente osservare che la contaminazione iniziale del 1976 era più che sufficiente a rendere gli attori edotti del fatto che l’area ove abitavano sarebbe stata caratterizzata in futuro da una concentrazione anomala di TCCD, sicché gli esiti dell’Analisi di Rischio del 2003 in nessun modo possono essere configurati come “fatto nuovo” idoneo a rendere gli attori stessi consapevoli di una circostanza altrimenti ignorata.
Parimenti non ritiene il Tribunale che la recente abrogazione dell’art. 51 bis, d. lgs. 22/97 ad opera dell’art. 264 lett. i) del nuovo “Testo Unico dell’Ambiente” (d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, riguardante: “Norme in materia ambientale”) approvato nell’anno in corso possa valere a risolvere in radice la questione.
Va subito detto che della effettiva abrogazione della previsione vi è persino ragione di dubitare, atteso che la stessa previsione di abrogazione stabilisce che i provvedimenti attuativi del d. lgs. 22/97 continuano ad applicarsi sino alla data di entrata in vigore dei corrispondenti provvedimenti attuativi del Testo Unico. Questa circostanza, diversamente da quanto opinato dalla convenuta, sembrerebbe comunque differire l’abrogazione al momento dell’adozione dei provvedimenti attuativi, abrogazione che potrebbe sostenersi non essere ancora avvenuta, alla luce del comunicato pubblicato sulla GU n. 146 del 26 giugno 2006, con cui è stato dato avviso relativo alla segnalazione di inefficacia di diciassette decreti ministeriali ed interministeriali, attuativi del decreto legislativo medesimo.
Al di là di questi profili, tuttavia, la tesi della convenuta va disattesa per altre ragioni. È invero da opinarsi che, una volta consumatosi il reato, la successiva abolitio criminis (ed a maggior ragione la mera introduzione di una previsione penale diversa) non vadano ad elidere – assieme al reato – anche l’illecito civile e la pretesa risarcitoria ad esso connessa. Quest’ultima pretesa, quindi, anche una volta venuta meno la previsione penale su cui si fonda (quantomeno ex artt. 185 c. p. e 2059 c. c.), deve ritenersi persistere, legittimando comunque la parte a chiedere il risarcimento.
Svolte tali premesse, l’individuazione della capacità di autonoma lesività della mancata bonifica deve, necessariamente, fare riferimento alla tipologia di danno dedotto in causa, consistente, nella specie, nel turbamento psichico (danno non patrimoniale ex art. 2059 c. c.) di cui gli attori verrebbero a risentire in virtù della loro permanenza in una zona “contaminata” e delle conseguenti analisi mediche cui si sarebbero sottoposti in passato e dovrebbero sottoporsi anche in futuro. Non è stato, infatti, allo stato, dedotto alcun danno alla salute quale conseguenza dell’esposizione a diossina, né – ovviamente, verrebbe da dire – un danno di tipo patrimoniale.
Orbene, così ricostruito l’ambito del decidere, ritiene il Tribunale di escludere la sussistenza di un danno autonomo e diverso da quello del 1976, e di concludere, pertanto, nel senso dell’accoglimento dell’eccezione preliminare di prescrizione del diritto.
Proprio la tipologia di danno dedotto, infatti, induce a ritenere che l’unico concreto evento lesivo cui ricondurre – quale danno-conseguenza, nella risistemazione operata dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte – il patema d’animo o danno morale, di cui gli attori hanno chiesto il ristoro, sia in realtà il disastro del 1976, dovendosi conseguentemente escludere che la mancata bonifica del terreno ad opera della convenuta abbia contribuito ad ingenerare un nuovo e distinto turbamento d’animo in capo agli attori. Va, invero, ribadito che è proprio la tipologia di danno lamentato ad evidenziare l’assenza di un quid novi rispetto all’evento originario. Quest’ultimo, infatti, appare costituire un evento di tale gravità da ingenerare uno sconvolgimento idoneo a protrarsi nel tempo, senza che la mancata (o inidonea) successiva bonifica dell’area possa aver originato un ulteriore perturbamento d’animo, risultando per contro che le limitazioni “esistenziali”, che gli attori denunciano e dalle quali fanno scaturire la propria pretesa risarcitoria, sono in realtà conseguenza dei fatti del 1976 e non della successiva condotta omissiva imputata alla ICMESA S. p. a.
A condurre a tali conclusioni sono, almeno in parte, le stesse allegazioni e produzioni effettuate da parte attrice, sotto un duplice profilo.
Il primo di detti profili è costituito dalle istanze istruttorie formulate da parte attrice in citazione e rinnovate nel foglio di precisazione delle conclusioni. Nulla quæstio, invero, sul fatto che il Tribunale non abbia concesso agli attori termini ex 184 c. p. c., restando, pertanto, spazio per ipotizzare che dette istanze istruttorie sarebbero state diversamente formulate. Sta di fatto, tuttavia, che i capitoli di prova comunque articolati si rivelano di per sé significativi, in quanto finiscono per riconoscere, indirettamente, che il “turbamento psichico a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti e limitazioni del normale svolgimento della vita” (così pag. 59 della citazione) si sono resi necessari in virtù della massiccia contaminazione del 1976, e che rispetto ad essi l’attuale insoddisfacente bonifica non assume rilievo eziologico autonomo. Significativi sono, ad esempio, i capp. 1 (“vero che a seguito dell’esplosione del reattore ICMESA, il 10.7.1976, gli attori vennero sottoposti ad esami sanitari da parte delle autorità pubbliche”), 2 (“vero che gli attori risiedevano e risiedono nelle zone B nelle quali furono riscontrate quantità misurabili di diossina”), 3 (“vero che a seguito dell’evento i controlli sanitari per gli abitanti della zona B proseguirono e proseguiranno per anni a venire”), dai quali emerge che la sottoposizione a controlli sanitari è conseguenza del disastro del 1976, ma anche i capp. 7 (“vero che l’evento disastroso provocò grave turbamento negli attori, i quali si recarono presso gli ambulatori medici pubblici al fine di avere delucidazioni sul comportamento da tenere”), 8 (“vero che in assenza di informazioni sulla tossicità della diossina gli attori consumarono i prodotti della zona, inquinati”), 10 (“vero che dalla data del disastro gli attori, unitamente ad altre migliaia di abitanti della zona inquinata, si sono riuniti circa 1 volta l’anno in assemblea avendo all’ordine del giorno i problemi della salute nella zona”), dai risulta che sia il patema d’animo, sia i motivi di preoccupazione per la propria salute derivano dalla contaminazione di trent’anni fa e dalle immediate ricadute dell’inadeguato allarme che venne dato alla popolazione nell’immediatezza del fatto.
Il secondo profilo è costituto dalla sentenza del Tribunale di Milano, 9 giugno 2003, il cui precedente è stato invocato da parte attrice, che anzi ha citato ampi stralci della motivazione in citazione. Orbene, la lettura della sentenza in questione (che non sembra essersi occupata del problema della prescrizione) evidenzia che anche la pronuncia del Tribunale meneghino ha assunto come proprio riferimento l’evento del 1976, e non certo la supposta violazione dell’art. 51 bis, d. lgs. 22/97. La pronuncia fa riferimento reiterato all’angoscia della popolazione successiva all’esplosione del reattore, alle indagini mediche successive, al fatto che “i controlli sulla popolazione sono proseguiti per oltre 10 anni dall’evento inquinante”. Anche questo precedente, quindi, appare assolutamente inconferente rispetto alla tesi sostenuta nella presente sede dagli attori, e non può certo supportare l’idea che gli attori, oltre al pregiudizio originatosi nel 1976, abbiano ricevuto un ulteriore, autonomo, nocumento psicologico dalla pubblicazione dell’Analisi di Rischio del 2003.
Risulta, quindi, in definitiva, che la costante sottoposizione ad esami, le limitazioni esistenziali, il perturbamento psichico, l’allarme diffuso sono frutto dell’evento del 1976 e avrebbero avuto modo di verificarsi anche qualora – si ragiona sempre in via ipotetica – l’ICMESA S. p. a. avesse tenuto una successiva condotta tale da sottrarla alla benché minima imputazione circa il mancato rispetto dell’art. 51 bis, d. lgs. 22/97. La paura, i timori per il futuro, lo stillicidio delle analisi periodiche – tutti fattori che sul piano umano suscitano l’assoluta comprensione – sono stati ineluttabilmente stabiliti dal disastro del 1976 (da classificarsi, quindi, come illecito con effetti permanenti e non come illecito permanente); da allora esistono e non possono certo essere stati accresciuti dall’analisi del 2003, dovendosi anzi ritenere che il progressivo decorso degli anni senza il manifestarsi di patologie scientificamente riconducibili al disastro (sul punto sono disponibili solo dati di tipo epidemiologico) o altri fattori di concreto e non ipotetico allarme (quale è, in parte, quello contenuto nell’Analisi di Rischio, che a tratti indulge nell’esame di ipotesi che essa stessa riconosce come estreme ed improbabili) dovrebbero aver contribuito a ridurre, seppur solo in parte, l’allarme degli attori.
Alla luce delle considerazioni che precedono risulta ultroneo l’ulteriore esame dei profili di merito e delle ulteriori eccezioni sollevate dalla convenuta, sempre in ordine al merito, dovendosi addivenire al rigetto della domanda.
La controversia ha comportato l’esame di profili giuridici di notevole complessità. Questa considerazione, la estrema peculiarità della vicenda, e, infine, la consapevolezza del fatto che la tesi sostenuta dagli attori abbia costituito il tentativo di superare un’eccezione di prescrizione a propria volta indirettamente cagionata da un obsoleto orientamento della Suprema Corte in ordine all’irrisarcibilità del danno morale da disastro (superata, tardivamente, solo nel 2002, quando era troppo tardi per gli attori per agire in giudizio), costituiscono, tutte, ragioni che ben valgono a giustificare la compensazione delle spese di lite.
P. Q. M.
il Tribunale di Monza, sezione di Desio, definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda ed eccezione rigettata, così provvede:
1) dichiara la nullità della domanda proposta in nome di […];
2) respinge la domanda proposta dagli altri attori in epigrafe contro la ICMESA S. p. a. con citazione notificata in data 8 aprile 2005;
3) compensa integralmente tra le parti le spese di lite.
Sentenza per legge esecutiva.

[1] Chiunque cagiona l'inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, previsto dall'articolo 1, comma 2, è punito con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno e con l'ammenda da€ 2582 ad € 25822 se non provvede alla bonifica secondo il procedimento di cui all'articolo 17. Si applica la pena dell'arresto da un anno a due anni e la pena dell'ammenda da € 5164 ad € 51645 se l'inquinamento è provocato da rifiuti pericolosi. Con la sentenza di condanna per la contravvenzione di cui al presente comma, o con la decisione emessa ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato alla esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale.

0 Comments:

Post a Comment

<< Home